·

Lavoro e Sviluppo

Precariato ed abuso della flessibilità del lavoro alle dipendenze della P.A.: quale sistema sanzionatorio alla luce delle ultimissime decisioni Europee?

Redazione · 8 anni fa

L’ultimissima sentenza della Corte di Giustizia Europea del 26.11.2014 ha sanzionato il nostro Stato per il reiterato uso dei contratti di lavoro flessibile, cambiando cosi il destino di migliaia di precari che ormai da moltissimi anni prestano la loro attività lavorativa alle dipendenze della P.A. Ma procediamo con ordine. Il settore pubblico, nel nostro paese, ha sempre rappresentato un grande punto di vanto e un fenomeno imponente tanto da dover essere ristrutturato più volte nel corso degli anni per renderla più rispondente alle esigenze dell’economia dello Stato. Proprio negli anni 90’si è data vita a quella fase passata alla storia come Privatizzazione del Pubblico Impiego, che ha, non solo cambiato la visione sistematica della P.A. ma anche le sorti dei c.d. dipendenti pubblici, il cui rapporto di lavoro, al pari dei lavoratori del settore privato, da questo momento in poi sarà basato sul contratto individuale di lavoro (contrattualizzazione della P.a.). L’art. 36 d.lgs.165/2001 modificato dall’art. 49 d.l. 112/08 conv. in l. 133/08 impone alla P.A. di assumere i lavoratori esclusivamente con contratti a tempo indeterminato, in presenza di esigenze connesse al fabbisogno ordinario; solo residualmente il datore di lavoro pubblico, qualora debba far fronte ad esigenze temporanee ed eccezionali, può utilizzare tipologie contrattuali flessibili, per l’assunzione di forza lavoro, come previsto dal codice civile e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure vigenti, demandando ai contratti collettivi la disciplina di tali forme flessibili di impiego in applicazione della disciplina legislativa dettata in materia, tra cui quella sul contratto a termine. L’Europa si è occupata di flessibilità del lavoro con la direttiva 1999/70/CE recepita dall’Italia con il d.lgs. 368/2001, applicabile tanto al settore privato quanto a quello pubblico, e ha definito le linee giuda entro cui lo stato deve legiferare quali: la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi, il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti e le ragioni obiettive che ne giustificano il rinnovo stesso. Spetta, ovviamente, agli Stati membri l’integrazione alla luce e allo scopo della direttiva soprattutto in tema sanzionatorio perché l’Europa ha voluto tutelare e rispettare le caratteristiche dei singoli Stati Nazionali. L’Italia ad esempio ha optato per una mera misura risarcitoria, escludendo la possibilità di conversione del contratto di lavoro con termine illegittimamente apposto, per rispetto dell’art. 97 Cost. Con alcune sentenze quali quella del 7.09.2006 causa C-53-04 Sardino e C- 180-04 Vassallo la Corte di Giustizia ha ritenuto che l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che il divieto di conversione del contratto di lavoro con termine illegittimamente apposto può essere considerata conforme alle previsioni dell’accordo quadro, sempre che lo Stato dimostri di aver previsto un’altra misura effettiva volta ad evitare ed eventualmente sanzionare l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione. Successivamente con l’ordinanza Affatato ha stabilito che è responsabilità del legislatore nazionale, inserire o non inserire il divieto di conversione dei contratti a termine, e ciò può riguardare sia il settore pubblico che il settore privato; il problema è garantire l’effettività della tutela contro gli abusi, ossia se il legislatore ha rispettato la clausola 5 n.1 dell’accordo quadro comunitario cioè in mancanza di norme equivalenti, se ha adottato una o più delle tre misure preventive che la disposizione della Direttiva 1999/70/CE ha previsto come obbligo per gli Stati membri al fine di evitare le precarizzazione ossia l’abuso dei contratti a termine nel settore anche pubblico. Ciò posto, affinchè una normativa nazionale possa vietare la trasformazione del contratto di lavoro deve essere presente un'altra normativa in grado di evitare ed eventualmente sanzionare l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato in successione (vedi sent. Adeneler, Marrosu e Sardino, Vassallo, Angelidaki, Vassilakis, Koukou, Lagoudakis ). Occorre ricordare a tal proposito che la clausola 5 dell’accordo quadro impone, agli stati membri, l’adozione di misure effettive e dissuasive di almeno una delle misure enumerate in tale disposizioni, qualora il diritto nazionale non preveda già misure equivalenti (sentenze Adeneler, Marrosu e Sardino, Vassallo, causa C268/06 Impact, Angelidaki, Koukou). Alla luce di queste importanti decisioni europee, la dottrina e la giurisprudenza italiana si sono poste il problema di capire se la misura sanzionatoria scelta e determinata da parte del legislatore italiano nell’art. 36 TUPI di carattere meramente risarcitorio, senza per altro definirne il quantum e senza rinviare ad alcuna normativa specifica da applicare in caso di abuso, risponda ai parametri europei che definiscono le misure risarcitorie da applicare in caso di abuso come equivalenti come effettive, dissuasive e tutelanti . Dall’altro lato si è pian piano consolidata, anche grazie ad alcune importanti sentenze europee e prese di posizioni della giurisprudenza italiana più radicale, un nuovo indirizzo propenso alla conversione del contratto di lavoro in caso di illegittima reiterazione dei contratti a tempo determinato in disapplicazione del diritto interno, ritenuto non conforme ai parametri comunitari, e in diretta applicazione della normativa europea di cui all’accordo quadro; a tal proposito si rimanda alla CGUE sent. Mascolo del 26.11.2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13. Questa pronuncia della CGE ha introdotto la figura dl c.d. “danno-sanzione” che permette di sanzionare le P.a. che abusano dei contratti a termine , con il risarcimento dei danni e/o con la condanna alla trasformazione dei contratti da tempo determinato a tempo indeterminato. Nonostante siano state varie le pronunce dei tribunali nazionali, già prima della sentenza della CGE sopra citata, favorevoli alla conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato nonchè al risarcimento danni in favore degli stessi (vedi es. sent. 1125/2013 del tribunale di Trani), si è dovuto attendere tale pronuncia della CGE, e si attende quella della Corte Costituzionale, per far si che i giudici nazionali facessero propria la figura oggi nota come “danno-sanzione”. La prima sentenza dopo quella della CGE “Mascolo” è stata emessa, in Italia, dal tribunale di Napoli (sent. n.528 del 21.01.2015) che ha recepito in pieno lo spirito della decisione europea ed ha applicato per la primissima volta il c.d. “danno sanzione”, disponendo la trasformazione del contratto di lavoro di un docente da tempo determinato a tempo indeterminato. Il giudice partenopeo ha brillantemente spiegato, in sentenza l’iter logico-giuridico su cui ha basato la sua decisione e ha ben spiegato che non esiste alcuna violazione dei principi contenuti nell’art. 35 D.Lgs. n. 165/2001. e né nell’art. 97 Cost., atteso che i “…lavoratori interessati hanno partecipato comunque ad una selezione volta all’accertamento della professionalità richiesta e tale da garantire in misura adeguata l’accesso dall’esterno infatti, questi lavoratori, hanno partecipato ad un avviso pubblico di concorso per titoli e/o esami e sono risultati utilmente collocati in graduatorie pubbliche. D’altro canto la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 41/2011 ha deliberato in senso favorevole la conformità del sistema delle graduatorie permanenti come corretto metodo di selezione dei più meritevoli. Alla luce di quest’ultima decisione, quindi, si è rafforzata la posizione dei precari del settore pubblico che potranno adire le vie legali per invocare la “stabilizzazione” dei loro contratti, fermo restando che gli stessi dovranno provare processualmente che risultano organicamente incardinati nelle strutture in cui lavorano.