·

Attualità

Accompagnare i malati terminali: un viaggio fatto di coraggio e competenze

Lucia Muraca · 4 anni fa

Il 2010 segna una svolta, almeno a livello legislativo, nella lotta al dolore nel nostro Paese. La legge n.38 concernente le Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, è una legge davvero innovativa anche nel confronto con il panorama legislativo europeo. In Italia per la prima volta, attraverso questa legge, si tutela e si garantisce l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore a favore del malato con malattia inguaribile o affetta da patologia cronica dolorosa, nell'obiettivo di assicurare il rispetto della dignità e dell'autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l'equità nell'accesso all'assistenza su tutto il territorio nazionale, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze. Viene sancito quindi, per la prima volta, il “diritto al non soffrire” ed il conseguente “dovere” da parte di tutte le figure sanitarie coinvolte, di agire a tutela di questo principio. Nella definizione stessa di “cure palliative”, presente all'art.2, si stabilisce che queste debbano essere rivolte non solo alla persona malata ma anche al suo nucleo familiare, a sottolineare la necessità della presa in carico globale del paziente, garantendo sia il sostegno sanitario che socio-assistenziale.
Alla luce della legge 38 ed a distanza di 10 anni dalla sua entrata in vigore, Non si più pensare al trattamento del dolore confinato allo specialista, bisogna che i medici di medicina generale si occupino del dolore.
Al medico di famiglia, come per gli altri operatori, spetta il compito difficile dell'accompagnamento nell'ultimo capitolo dell'esistenza, nello specifico ambito delle cure palliative, egli sposta l'attenzione dal guarire al “prendersi cura”, con particolare attenzione ai sintomi e alla qualità della vita.
Nessuna altra professione sopporta altrettanto peso in quei momenti. Il medico di famiglia che assiste un malato terminale assume la responsabilità professionale non solo del paziente ma anche di tutta il suo nucleo familiare. Egli più che trattare la malattia si prende cura della persona. La sua specializzazione è centrata sul paziente, basata sull'evidenza, focalizzata sulla famiglia, orientata ai problemi.
Il lavoro del medico non è solo quello di assicurare salute e sopravvivenza, ma è permettere il benessere che ha a che fare con le ragioni per cui uno desidera essere vivo. Nella fase terminale della vita si possono trattare i sintomi che limitano la qualità della vita della persona malata, si può anzi si deve trattatre il dolore, si può avere garantita una sedazione quando i sintomi sono ingestibili e intrattabili, si può garantire una morte senza sofferenza. Si può avere cura della persona nella sua totalità, avendo attenzione per la sua dimensione fisica, sociale, psicologica e spirituale. Il campo delle cure palliative ha preso forma negli ultimi decenni con l'obiettivo di applicare questo tipo di pensiero all'assistenza ai pazienti prossimi alla morte.
Il medico di famiglia, prima figura di riferimento per il paziente che deve ricorre alla Cure Palliative, gioca un ruolo fondamentale nel modello di continuità assistenziale auspicato dalla Legge 38/2010, anche come trait d'union nei confronti delle atre figure professionali.
I compiti del medico specialista e del medico di medicina generale sono diversi ma assolutamente complementari e quindi è necessario capire, ciascuno per le proprie competenze e con i propri strumenti, come garantire il massimo delle cure possibili, ma personalizzate paziente per paziente.
La Medicina Generale, per sua stessa natura, è destinata a farsi carico di gran parte della gestione di questo problema. È l'unicità della figura del Medico di Medicina Generale, capace di contestualizzare il malato e la sua sintomatologia nell'ambito più ampio delle relazioni familiari e sociali e di interfacciarlo con le caratteristiche di personalità specifiche di ciascuno, che lo rende l'operatore più adatto a prendersi carico di questa problematica. Chi, come me, sceglie di essere un medico sa bene che il compito più importante da realizzare ogni giorno al fianco di chi soffre è quello di offrirgli un rapporto umano, fatto di competenze e sollievo. Solo così, si può sostenere ed aiutare veramente chi è stato colpito dalle dure prove della vita, in particolare la malattia, e rispettare pienamente la sua dignità umana. Madre Teresa di Calcutta diceva che «Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell'ora buia di qualcuno, non è vissuto invano». E sicuramente l'ora più buia per un essere umano è quella della fase terminale della vita, soprattutto nella sofferenza del distacco. Se prossimi all'essere umano morente, vicini al suo letto, noi medici sapremo essere persone competenti nel lenire le sofferenze e competenti a preservare, fino alla fine della vita, il riconoscimento e il rispetto della dignità, potremmo affermare di aver acceso quella luce nell'ora buia di cui parlava Madre Teresa.
Sembra di poter concludere che mai come in questi tempi urge che i saperi si intreccino, si confrontino, si uniscano per il benessere globale del paziente. Accompagnare i malati terminali in questo ultimo viaggio fatto di coraggio e competenze deve diventare parte integrante dell'assistenza medica perché l'assistenza alla vita non può prescindere dall'assistenza alla morte, perché una morte senza dolore non è solo un dovere etico di ciascun medico per evitare le altrui sofferenze, ma è un imperativo clinico!