Il testo “Chiesa e mafie. Quale condanna?” raccoglie il contenuto della Tesi Dottorale in Diritto penale canonico che a maggio del 2020 don Marco Mastroianni ha difeso presso la Pontificia Università della Santa Croce.

Il tema affrontato è quello del rapporto tra Chiesa e criminalità organizzata, sviscerato a partire dall’analisi dei pronunciamenti offerti dai Pontefici e dai Vescovi delle aree più interessate (Calabria, Sicilia e Campania) sulla piaga delle mafie, evidenziando come, seppur a tratti in modo faticoso, la denuncia ecclesiale si sia gradualmente affermata fino ad essere ai nostri giorni indiscutibile, con la chiara e definitiva attestazione – tanto nel Magistero pontificio che in quello dei Vescovi – della totale incompatibilità tra l’appartenenza cristiana e quella mafiosa. Oggi è ormai chiaro che “non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore” (Papa Francesco).

Da tale constatazione, con particolare riferimento alle parole di Papa Francesco a Sibari nel 2014 – famose per avere definito per la prima volta i mafiosi “scomunicati” – si è cercato di appurare quali concreti provvedimenti tale denuncia abbia generato, e quali limiti ed opportunità offrano gli espedienti a cui sono ricorsi già da tempo diversi Vescovi, prova di una consapevolezza sul fenomeno che è venuta gradualmente crescendo insieme al fenomeno stesso, ormai diffuso ben oltre i confini nazionali (ne è prova il fatto di esso si è trattato anche nel Primo Dibattino Internazionale sulla Corruzione, svoltosi in Vaticano nel 2017 ed organizzato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale). Il testo dunque, sulla scia delle parole pronunciate dal Pontefice, prospetta il percorso che, alla luce del diritto canonico e delle indicazioni del competente Dicastero della Santa Sede, bisognerebbe seguire se si volesse giungere ad un possibile intervento normativo canonico.

Allo stesso tempo si mette in evidenza come, a prescindere da qualsiasi effettivo provvedimento giuridico, già la stessa condotta morale dei fedeli mafiosi (in quanto tali appunto) mina la loro piena partecipazione alla vita della Chiesa, in quanto alimentatori di una vera e propria “struttura di peccato”, cioè di un fitto sistema di relazioni inique che minacciano la vita e lo sviluppo dell’intera comunità umana ed il bene comune. In tal senso si può parlare – con Giovanni Paolo II – di “peccato sociale”, dal moneto che esso va a minare l’intero sistema di convivenza sociale nei processi del suo normale sviluppo.

Spesso questi atteggiamenti convivono paradossalmente con forme di ostentata religiosità. Piuttosto frutto di strumentalizzazione per riscuotere consenso popolare, che espressione di fede matura. Non è un caso che gli stessi Vescovi della Calabria ne parlino come di “una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea”, che spesso dal vero cammino di fede mutua riti, gesti, parole.

Perché un interesse da parte della Chiesa? Anzitutto perché la Chiesa ha il compito di interessarsi alle problematiche che la comunità umana vive in un determinato momento storico, assolvendo al suo compito di sensibilizzare ed educare le coscienze ai valori della civiltà, della legalità, della tutela del creato ed al contrasto di ogni forma di cultura mafiosa. Allo stesso tempo perché – è vitale ricordarlo – dietro un peccato – per quanto grave e cruento possa essere e per questo degno della più ferma condanna – c’è sempre una peccatore che può redimersi, c’è sempre un’anima che può riscoprire la bellezza di ritornare, pur con fatica, sulla strada del bene riscoprendo la sua originaria bellezza. Qualsiasi intervento da parte della Chiesa – fosse anche di natura penale – non avrebbe altro fine che essere un appello alla coscienza di chi sta sbagliando, annunciando la possibilità di gioire del perdono di Dio che pazientemente attende ogni peccatore, nella certezza che lo Spirito Santo può operare in modo imprevedibile anche nei cuori apparentemente più induriti.

Il testo porta la prefazione di don Davide Cito, Docente di Diritto Penale alla Pontificia Università della Santa Croce e la postfazione della Dott.ssa Marisa Manzini, Procuratrice aggiunta a Cosenza, recentemente nominata membro di un Dipartimento per l’analisi e l’osservazione dei fenomeni criminali e mafiosi istituito nella Pontificia Accademia Mariana Internazionale.