di Don Pino Fazio

Gesù, nella sinagoga di Nazareth, aveva proclamato il brano del profeta Isaia (capitolo 61,1) in cui è scritto «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore».

Le sue parole di commento, «oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi», destarono in alcuni meraviglia e lode, in altri incredulità e ostilità. L’espressione dei nazareni “non è il figlio di Giuseppe?” potrebbe significare “ma chi si crede di essere? non è un nazareno come noi?”. Si delineano cosi due fazioni nella sinagoga, una che dubita e critica, l’altra che gli rende testimonianza. Così Gesù immagina possa essergli ricordato dagli abitanti di Nazareth il proverbio “medico, cura te stesso” (Lc 4,23) quasi a esortarlo a compiere quelle azioni miracolose che aveva compiuto a Cafarnao, ma poi replica all’obiezione con dolorosa amarezza affermando che “nessun profeta è bene accetto nella sua patria” con riferimento, più che alla poco lusinghiera accoglienza fatta a lui dai Nazareni, all’atteggiamento generale degli Ebrei nei riguardi del suo messaggio. Tali espressioni si possono interpretare anche come invito a considerare e sanare i propri difetti prima che quelli degli altri e trovano un corrispettivo nella metafora della pagliuzza che è nell’occhio del vicino più facile a vedersi della trave che è nel nostro (Luca, 6, 41). Poi Gesù fa qualcosa d’imperdonabile per i nazareni: utilizzando un’affermazione solenne “in verità vi dico” racconta due episodi dell’Antico Testamento, un po’ indigesti agli ebrei, perché è come se dicesse loro: “Dio non preferisce voi, non siete migliori di nessun altro popolo!”. Infatti riprendendo il primo libro dei Re (17,17-24), ricorda il profeta Elia che durante la carestia, senza pioggia per 42 mesi e con la peste della lebbra, non andò a soccorrere il suo popolo ma proprio coloro che gli ebrei tanto disprezzavano. Andò infatti da una vedova pagana di Zarepta di Sidone (1 Re 17,8-16) a cui guarirà il figlio morto. L’amore di Dio è universale, e se non guarisce Israele, non è perché Lui non vuole, ma perché Israele non si converte, perché Israele lo rifiuta. Poi Gesù ricorda il profeta Eliseo, discepolo di Elia, che con tanti lebbrosi che c’erano in Israele, non guarì nessuno degli ebrei se non un militare pagano, Naaman il Siro (2 Re 5,1-14). Per i nazareni questo è troppo: «tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno».

Quindi in sintesi tutti si infuriano perché Gesù ha parlato dell’amore universale di Dio e non di predilezione per Israele. Così Gesù viene trattato come un traditore del popolo e la legge comanda che i traditori debbano essere uccisi (Dt 13,10-11). E chi tenta di farlo sono i suoi i suoi compaesani, che lo conducono «fuori della città» per ucciderlo. Tale espressione la troviamo anche durante la passione di Gesù ed è quindi un’anticipazione di ciò che poi avverrà sulla croce. Quindi l’evangelista Luca profetizza la morte di Gesù ma anche la sua risurrezione: «ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino»: il popolo lo vuole eliminare ma Gesù continua a vivere. I nazareni si sono sbagliati su Dio. Diceva il Turoldo che «sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare. Perché poi ti sbagli su tutto, sulla storia e sul mondo, sul bene e sul male, sulla vita e sulla morte».