“Titus con il suo martirio ha voluto ed ha saputo dire che dentro un uomo che muore c’è sempre una parola capace di suscitare una domanda e di far capire che dentro quella morte Dio costruisce come sempre la vita”. Così monsignor Serafino Parisi concludendo ieri sera l’omelia della celebrazione eucaristica, officiata nella chiesa della Madonna del Carmine in occasione dell’arrivo della reliquia del carmelitano sacerdote e martire San Tito Brandsma, la cui figura è stata tracciata da padre Cosimo Pagliara, provinciale dei carmelitani.

Giornalista professionista, San Tito, nato in Olanda nel 1935, prima e durante l’occupazione nazista dell’Olanda, lottò, con fedeltà al Vangelo, contro il diffondersi delle ideologie nazionalsocialiste e per la libertà delle scuole cattoliche e della stampa cattolica. Per questo, venne arrestato e, dopo un calvario di carceri e lager, fu internato a Dachau. Il 26 luglio 1942, fu ucciso fra sofferenze e umiliazioni, mentre infondeva serenità e conforto agli altri deportati e beneficava gli stessi aguzzini.

Proclamato beato da San Giovanni Paolo II il 3 novembre 1985, è stato canonizzato da papa Francesco il 15 maggio 2022.

San Tito all’infermiera che gli iniettò l’acido fenico per ucciderlo, regalò una coroncina fatta di rame e di legno e quando la donna gli disse che “quell’oggetto non le serviva perché non sapeva pregare, lui le rispose: ‘Non occorre che tu dica tutta l’Ave Maria, di’ soltanto: Prega per noi peccatori’”. Fu la donna, in seguito, a  raccontare come san Tito sopportasse gli esperimenti ai quali era sottoposto e di come rispondesse con l’amore a tutto ciò che subiva. Azioni e parole che, lentamente, si insinuarono nel cuore della donna al punto che si convertì.

“Abbiamo imparato in questi campi di concentramento – ha detto monsignor Parisi – , in questi campi di morte, che il livello umano è talmente umano da arrivare, a volte, ad essere brutale, animalesco. Allora, per risollevare il capo, per rialzarsi, per ricostruire l’umanità dalle ossa aride della fine, c’è bisogno di una proposta che sia per l’uomo, ma a livello di Dio”. Quindi, partendo dal brano del Vangelo, il Vescovo ha rimarcato: “Tutto ciò che volete che gli uomini facciano a voi, fatelo anche voi a loro. Che cosa vuoi ricevere nella disperazione? Vorrei ricevere la speranza. Allora incomincia a volere anche per lui la speranza. Perché – lo abbiamo sentito nella vicenda del Rosario – il dono di una coroncina per la preghiera diventa in chi iniettava morte, un’iniezione di speranza”. Ed ecco che la Parola diventa anche testimonianza di vita: “A chi ti percuote sulla guancia – ha ricordato monsignor Parisi – , tu porgi anche l’altra. Non è, in questo caso, la vittoria del più forte, non è la vittoria del malvagio, non è la vittoria di chi picchia più forte per cui tu, dato che hai ricevuto qualche schiaffo, sottomettiti, fatti picchiare un’altra volta. No. Per picchiarti sulla guancia, tu ed io dobbiamo essere faccia a faccia, occhi negli occhi, e, mentre tu picchi ed io ti dico ‘prego, accomodati, picchiami anche sull’altra guancia’, io ti sto dicendo che c’è uno stile diverso di stare di fronte ad un altro uomo: tu con la tua forza bruta, io con il mio stile – come va di moda oggi di dire – non violento. Ma non è soltanto la non violenza è la testimonianza di un altro modo di vivere, un altro modo di interpretare la relazione con l’altro. Non, appunto, nella linea della forza, di chi sottomette l’altro avvalendosi del suo potere, della sua immagine di forza che si è creato. No, c’è un altro stile ed è quello della debolezza che sa essere schiaffo più forte di chi ti aggredisce ed invece riceve una lezione di vita”.

“E questa è la logica – ha affermato il Vescovo che ha anche raccontato la sua personale ed indelebile esperienza nel visitare il campo di Dachau – e le perle che sono uscite fuori da questi campi di concentramento, ci dicono che la forza del Vangelo davvero è capace di alimentare, non soltanto la nostra vita, la vita del credente, ma è capace di alimentare anche quella fame, quella sete di vera umanità e  direi pure quella fame e quella, sete di Dio che è nascosta nel cuore di ogni uomo e che, poi, per questi sistemi strani, illusori di vita, viene repressa, viene messa da parte. Far sorgere una domanda è già un martirio, è già una testimonianza, è già dono della vita. Dentro questo scenario di morte la Parola alta del Vangelo è capace di dire all’uomo sprofondato nel baratro del suo nulla che è possibile ancora riprendersi, è possibile ancora sperare, è possibile ancora rialzarsi ed essere un propositore di storia nuova”.

 

Saveria Maria Gigliotti